La rete ad attività persistente che sostiene la working memory

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 04 marzo 2017.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Secondo un’ipotesi accreditata ed estesamente condivisa, l’attività neurale persistente costituisce il meccanismo per il mantenimento delle memorie di funzionamento. E’ noto che il perdurare delle scariche riguarda i neuroni di numerosi blocchi di cellule nervose cerebrali distribuite in una rete di aree; tuttavia, non è chiaro quale sia il particolare contributo di ciascuna area. Il tentativo di stabilire dove e quali siano le aree principali della memoria di funzionamento o memoria di lavoro, come spesso si dice in italiano per la diffusione di una traduzione inesatta, è un compito della ricerca attuale. Ma, prima di considerare quanto di nuovo sta emergendo da questi studi, vediamo in estrema sintesi come nasce il concetto di working memory a partire dall’evidenza di una memoria temporanea.

Sebbene l’ipotesi che la ritenzione di breve durata - o immagazzinamento a breve termine -agisca da memoria di funzionamento fosse stata avanzata da altri in precedenza, si dovrà attendere il modello laboratoristico di Atkinson e Shiffrin (1968) per avere una formulazione compiuta ed accettata[1]. Tale modello prevede una ritenzione dell’informazione di breve durata che, oltre a trattenere ed elaborare i dati, partecipa ad un vasto insieme di compiti cognitivi essenziali, come la comprensione, l’apprendimento e il ragionamento[2].

Su questa base si riteneva che il “magazzino” a breve termine agisse da memoria di funzionamento, ma le prove di questo ruolo erano piuttosto scarse. Alan  Baddeley e colleghi realizzarono allora una sperimentazione di verifica, prendendo le mosse da prove di compito doppio. Fra i vari risultati ottenuti, il più rilevante suggeriva che, qualsiasi sia il sistema di ritenzione dei numeri nella memoria immediata, è certo che non ha un ruolo cruciale nella rievocazione, diversamente da quanto previsto dall’ipotesi sottostante tanto il modello di Atkinson e Shiffrin, quanto un modello proposto da Rumelhart, Lindsay e Norman (1972). L’insieme dei dati emersi escludeva la possibilità di un sistema semplice e suggeriva una molteplicità di processi paralleli, resi da Baddeley e colleghi con un modello che prevede un sistema attenzionale di controllo[3] che supervisiona e coordina molti sistemi sussidiari sottoposti. Fra questi sistemi ancillari, su due si è focalizzata l’attenzione: a) un “blocco per appunti visuo-spaziale”, responsabile di fissare e manipolare immagini visive; b) un ciclo articolatorio o fonologico, responsabile dell’elaborazione dell’informazione basata sul linguaggio verbale[4].

È opportuno ricordare che, sebbene la working memory sia legata – soprattutto in Europa –agli studi neuropsicologici di Alan Baddeley e la sua scuola, i meriti dell’individuazione della sua base neurale negli animali si devono ascrivere alla compianta Patricia Goldman-Rakic. Ma, tornando alla realtà umana, consideriamo la concezione attuale della memoria di funzionamento in una definizione di Olson e Colby: “…l’abilità di tenere l’informazione in mente e manipolarla mentalmente come quando si compone un numero telefonico o si fa un calcolo mentale”[5].

Se l’attività neuronica persistente di una rete distribuita è realmente la base della conservazione temporanea dell’informazione, la comprensione dell’entità del contributo delle singole aree al ruolo fisiologico assume la massima importanza.

Kaminski e colleghi hanno provato a stabilire tale contributo in uno studio di notevole interesse.

(Kaminski J., et al. Persistently active neurons in human medial frontal and medial temporal lobe support working memory. Nature Neuroscience - Epub ahead of print doi:10.1038/nn.4509, 2017).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Neurosurgery, Department of Neurology, Department of Biomedical Science, Cedars-Sinai Medical Center, Los Angeles, California (USA); Department of Neurosurgery, Huntington Memorial Hospital, Pasadena, California (USA); Division of Biology and Biological Engineering, California Institute of Technology (CIT), Pasadena, California (USA).

Per introdursi alla working memory credo che non ci sia modo migliore che citare le parole di Joaquin Fuster nella prefazione di Prefrontal Cortex, il testo di riferimento in tutto il mondo sulla fisiologia della corteccia prefrontale per due generazioni di ricercatori:

“La scoperta di cellule della memoria nella corteccia prefrontale della scimmia ha fatto molto per ispirare la prima edizione di questo libro. Ma, prima e dopo la sua pubblicazione, molti erano soliti chiedermi – con malcelato imbarazzo – qual è esattamente la funzione di queste cellule? All’inizio le chiamai “memoria a breve termine”, poi “memoria temporanea”, poi “memoria previsionale”, poi “memoria attiva”, poi “memoria attiva a breve termine”. Nessuna di tali caratterizzazioni per quello che molti di noi stavano osservando nella scimmia fu ampiamente accettata. Intanto, come se tentassi di fermare un’onda di una marea montante con le mani, resistevo strenuamente al temine working memory, che ritenevo alieno dal fenomeno. Dopo la terza edizione, tuttavia, abbandonai la battaglia. Quel termine era stato quasi universalmente adottato per la funzione dietro la scarica persistente di cellule prefrontali durante il mantenimento di una memoria per un’azione. Manipolando la modalità del memorandum, osservammo il fenomeno anche in altre cortecce associative (ora, grazie all’imaging, sappiamo perché). Nel frattempo, il concetto di base di working memory, insieme con i dati nella scimmia, si era diffuso in centinaia di studi negli animali e negli esseri umani. Soltanto il nome era cambiato, non il concetto della funzione, in quanto il ruolo di questa funzione nell’organizzazione temporale dell’azione è definito meglio ora di quanto lo fosse nella prima edizione”[6].

Nella realtà umana la base funzionale per la prestazione cognitiva corrente, in parte identificata con la memoria a breve termine distinta dalla ritenzione temporanea che precede il consolidamento[7], corrisponde alla memoria di funzionamento o working memory (WM). In termini operativi, quali quelli tipici della neuropsicologia sperimentale, la WM si fa coincidere con l’abilità di ritenere un elemento di informazione nella prospettiva di compiere un atto dipendente da tale contenuto informativo.

L’abilità così descritta è una funzione cognitiva essenziale per la mediazione di contingenze trans-temporali nell’integrazione cronologica di ragionamento, comunicazione verbale e comportamento finalizzato ad uno scopo[8]. Come le scimmie con lesioni frontali a lungo studiate, le persone con tale interessamento patologico presentano un deficit di WM, specialmente se la lesione interessa le aree laterali della corteccia. In ogni caso, la WM può difettare in molte condizioni neurologiche. La ragione per cui il suo deficit è particolarmente evidente in pazienti frontali è che quel tipo di funzione è necessaria nella prospettiva di un atto, sia che si tratti di atti motori sia che si tratti di operazioni mentali o comunicazioni verbali[9]. Il paziente con lesioni del lobo frontale ha in genere prestazioni scadenti in tutta la gamma di test per la WM, e particolarmente nei compiti con esecuzione ritardata (delay task). L’estensione e le caratteristiche del deficit misurate con i test dipendono dal contesto della prova e, soprattutto, dal grado di soppressione dell’interferenza richiesto dal compito[10].

Kaminski e colleghi hanno registrato singoli neuroni nella corteccia frontale mediale e nel lobo temporale mediale, mentre le persone volontarie che partecipavano all’esperimento dovevano trattenere in memoria fino a tre elementi. In tal modo sono stati rilevati neuroni persistentemente attivi in entrambe le aree.

L’attività persistente nei neuroni dell’ippocampo e dell’amigdala risultava stimolo-specifica, formava attrattori stabili ed era predittiva del contenuto di memoria.

D’altra parte, l’attività neuronica persistente della corteccia prefrontale mediale, era modulata dal carico di memoria e dal setting del compito sperimentale, ma non era stimolo-specifica. La variabilità dell’attività persistente, esame per esame, in entrambe le aree era collegata alla forza della memoria, perché essa prediceva la velocità e l’accuratezza con le quali gli stimoli erano ricordati.

Concludendo, questo lavoro fornisce nell’uomo evidenze dirette di una rete distribuita di cellule nervose persistentemente attivate a supporto del mantenimento della memoria di funzionamento.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-04 marzo 2017

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

_____________________________________________________________________________________________________________________

 

La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. Alan Baddeley, La Memoria Umana - teoria e pratica, p. 83, Il Mulino, Bologna 1992.

[2] Cfr. Alan Baddeley, op. cit., pp. 83-84.

[3] Corrispondente all’ipotetico “Esecutore Centrale”.

[4] Cfr. Alan Baddeley, op. cit., p. 88.

[5] Cfr. Kandel, Schwartz, Jessel, Siegelbaum, Hudspeth (eds), Principles of Neural Science. 5th Edition, p. 405, McGraw Hill, 2013.

[6] Joaquin M. Fuster, The Prefrontal Cortex, pp. XI-XII (Preface). Academic Press Elsevier, 2008.

[7] La distinzione nella nostra specie, originata da ipotesi neuropsicologiche, si basa sul fatto che si ritiene vi sia una base neurale propria e distinta da quella della ritenzione temporanea delle varie memorie che possono essere consolidate e poi magari permanere a lungo termine.

[8] Cfr. Joaquin M. Fuster, op. cit., p. 185.

[9] Cfr. Joaquin M. Fuster, op. cit., ibidem.

[10] Cfr. Joaquin M. Fuster, op. cit., p. 187.